Certo, leggendo I diabolici, è impossibile non pensare a Hitchcock, ma difficile è pure non ricordare Simenon e il suo Porto delle nebbie che fa disperare Maigret. Siamo su piani molto diversi, ovviamente. La provincia francese, è vero, è sempre presente; la nebbia e l’acqua anche; il mistero, poi, non ne parliamo proprio. Ma il degrado psicologico insieme a tutte le sue sfaccettature irrazionali che diventano pasto per cinici; ecco, di quello il commissario non deve occuparsi. O meglio, non con tanta dovizia di espressione e precisione lessicale.
Il titolo originale è Celle qui n’etait plus, ma è molto più noto col nome Les Diaboliques che Henri-George Clouzot ha dato al suo adattamento cinematografico (nella foto, Vera Clouzot) . I due autori – Pierre Boileau e Thomas Narcejac – hanno creato il perfetto romanzo dell’angoscia: quello in cui la vittima ha il ruolo principale e i personaggi sono psicologie in conflitto tra loro. Ed è proprio con questo libro che Adelphi, nella sua mitica collana Fabula, inizia la pubblicazione dei romanzi più interessanti dei due innovatori del noir.
Sono una coppia piuttosto insolita, Boileau e Narcejac; coppia letteraria, si intende. Quasi degli artigiani della fiction in grado di confezionare narrazioni molto convincenti. I diabolici ne sono – probabilmente – l’apoteosi. Anche più dell’opera scritta apposta – nonostante egli lo abbia negato sempre – per il maestro del brivido: La donna che visse due volte (D’entrs les morts). Si sono, i due, ben divisi il banco: Boileau assicura l’intrigo; Narcejac la psicologia.
In quanto a «donne che vivono due volte», certo, nessuna novità: sono un tema ossessionante. E anche qui è di questo che si tratta. Ma pure in quanto a “cinematograficità” non siamo molto lontani: il racconto è di una icasticità sorprendente. A volte, nonostante la nebbia, si ha la sensazione di percepire gli oggetti, di avvertirne i colori intorno. Il linguaggio ha una spiccata propensione verso la precisione: immagini, ambienti, spazi, colori e oggetti sono resi con chirurgica efficacia. Ma chirurgica è anche la sintassi: ricca di incidentali e poco di subordinate, produce un ritmo incalzante. La traduzione italiana condotta da Giuseppe Girimonti Greco e Federica Di Lella riesce a riprodurre efficacemente la stilistica del testo francese. La scelta, poi, di mantenere i tempi verbali al presente contribuisce a riprodurre l’effetto di costruzione istantanea dell’intreccio durante la lettura.
E, a proposito di intreccio, questo è tanto più complesso quanto più la storia, la fabula, è semplice. Non ci mettiamo molto a scoprire chi sia la vera vittima: Ravinel il quale, scomparso il corpo della moglie – Mireille – che credeva di avere assassinato insieme alla dottoressa Lucienne, procede verso la sua totale autodistruzione parallelamente alla progressiva ricomparsa della donna dal mondo dei morti. E quanto più il racconto procede, tanto più vediamo polarizzarsi in maniera binaria personaggi e eventi secondo gli schemi razionalità/suggestione, materialità/fantasmi, cinismo/senso di colpa. Con una costante che addensa parole, azioni e descrizioni: i campi semantici dell’acqua, della nebbia e del buio. L’infittirsi della foschia coincide con la disgregazione psicologica di Ravinel, la reificazione delle persone con cui interagisce e la solitudine in cui sempre più si ritrova.
Si tratta – inutile dirlo – di un romanzo più da leggere che da rileggere: la perfetta costruzione dell’intreccio cela una sorpresa finale che, una volta conosciuta, fa svanire ansia e apprensione. Ma non la sensazione di assistere alla messa in scena di un autentico campionario di umanità, il quale, ad un certo punto, si trasforma in puri oggetti. Tracce di presenza umana che lasciano avvertire con terribile precisione la solitudine in cui è ridotto Ravinel, un relitto incapace di reggere oltre il peso della vita.
“I diabolici” di Pierre Boileau e Thomas Narcejac (Adelphi, pp. 173, 16 euro)
Pubblicato su CultWeek.