Il seguente articolo è la mia traduzione di Les intellectuels anéantis par la puissance des médias? dal blog La République des livres di Pierre Assouline.
Cos’è, dunque, un intellettuale? Ha l’aria di niente, questa domanda; è un vero e proprio nodo riguardo al concetto e un suo avvilimento. Ormai passato il tempo dello stupore di fronte all’incongruità della questione tanto la risposta sembra ovvia, non c’è niente di meglio, per animare un dibattito o rianimare una discussione, che porla. Incomprensioni e litigi saranno garantiti fin dalle premesse: alcuni si impegneranno a definire l’aggettivo, altri il sostantivo. Où sont passés les intellectuels? (17 euro, 110 pagine di testo) viene giusto a proposito per guidarci attraverso il labirinto delle interpretazioni. L’autore, Enzo Traverso, è uno storico italiano (Gavi, 1957) che ha insegnato pensiero politico all’Università di Piccardia prima di essere nominato professore all’Università di Cornell (NY), ha consacrato le sue ricerche al fenomeno del totalitarismo, all’antisemitismo, alle violenze contemporanee e la guerra civile europea. Il suo saggio è di una chiarezza esemplare, dovuta alla sua forma: una conversazione con Régis Meyran.
Enzo Traverso ha scelto di cominciare non da un libro e nemmeno da un pensiero ma da una fotografia dell’Agenzia di stampa francese del 2000. Si vede un intellettuale palestinese, Edward Saïd (Gerusalemme, 1935 – NY, 2003), allora professore di Letterature comparate alla Columbia, mentre lancia delle pietre contro un posto di blocco israeliano al confine con il Libano. Un gesto di protesta che si guarda bene dall’accreditarsi un qualche eroismo, per sembrare, piuttosto, la rivelazione di un modo di porsi. Niente di screditante in questa osservazione, tanto che Traverso, ricordandosi di ciò che la musicologia deve a Said (si veda il suo saggio Sullo stile tardo appena apparso su Actes Sud), se ne serve per farne un intellettuale della dissonanza e del contrappunto, che suona il contrasto contro l’armonia. Per i francesi, ma non solamente per loro, tutto parte dall’Affaire Dreyfus. Da un lato, il J’accuse di Zola nell’Aurore di Clemenceau; dall’altro, la campagna de l’Action française contro gli spiriti decadenti, cosmopoliti, cerebrali, astratti, sublimata da Maurice Barrès in Les Déracinés. È vero che l’intellettuale si iscrive nella tradizione dei Lumi così fortemente combattuta – e con quale perseveranza! – dai nazionalisti.
Per inciso – Traverso mette le cose in chiaro – c’entra il modo in cui gli intellettuali francesi hanno talvolta interpretato i pensatori tedeschi prima di strumentalizzarli. Si pensi a Heidegger, naturalmente; lui pensa soprattutto a Nietsche, di cui Michel Onfray, al seguito di Gilles Deleuze, ha voluto fare un uso libertario mentre egli era un reazionario, anzi di più: “un grande critico conservatore della modernità”. Dal canto suo, Enzo Traverso previene, nella scrittura della Storia, una tendenza all’ambizione post-ideologica che ritiene nefasta: l’umanitarismo a partire dal quale certi vorrebbero farci analizzare la seconda guerra mondiale (Resistenza in Italia, Guerra civile spagnola, resistenza e collaborazione in Francia, ecc.) esclusivamente attraverso il prisma dei diritti dell’uomo.
Come definire, allora, questo intellettuale di cui lo statuto ha ben conosciuto delle difficoltà e per il quale la formula di Sartre (“colui che si immischia con ciò che non lo riguarda”) non è più sufficiente, se mai lo è stata? In un saggio in uscita sulla storia degli intellettuali italiani (il 15 marzo su Belles Lettres), Frédéric Attal ha scelto di precisare nel sottotitolo: “Profeti, filosofi e esperti”. E dire che è l’Italia… Nell’ultimo numero di Débat (n. 173, gennaio-febbraio 2013), Sylvie Laurent smonta il mito secondo il quale l’intellettuale di sinistra sia sparito negli Stati uniti; egli è bell’e vivo, anche se trasformato, e sempre pronto a compiere la sua missione così come l’aveva definita… Edward Saïd: “l’intellettuale è colui che, contro corrente nello spirito dei tempi, chiarisce le condizioni d’esercizio di un potere talvolta invisibile”. E dire che è l’America… Michel Foucault aveva una volta portato la sua pietra all’edificio concettuale proponendo questa distinzione:
– l’intellettuale specifico, spesso un accademico, che interviene negli affari della città in virtù della sua conoscenza;
– l’intellettuale universale che analizza e giudica in funzione di valori umanisti.
Così era negli anni ’70. Da allora, i dati non sono più gli stessi. Dacché distinguiamo …
– da un lato, il filosofo platonico o filosofo-re della città ideale (spaventoso);
– dall’altro, il consigliere del principe o il filosofo di corte (docile);
– tra i due, l’intellettuale critico del potere (senza grande visibilità);
Il consigliere del principe, che domina nei nostri giorni, Traverso lo ribattezza esperto: colui che non si impegna per difendere dei valori ma per mettere in pratica le sue competenze evidenziando una presunta neutralità. Il caso stesso di Traverso e Saïd l’illustra: l’intellettuale non è più uno scrittore o un giornalista, ma un accademico, anche se egli è stato spossessato della sua casa dagli esperti. Si capisce subito che l’intellettuale del terzo tipo, critico del potere, è colui che ha i favori dell’autore; ma il suo statuto sociale è così precario che è diventato difficile da valutare. Egli lo preferisce all’intellettuale specifico così come lo esaltava Foucault perché, anche se egli si vuole un esperto critico, sono passati quarant’anni da allora e l’esperto somiglia piuttosto a un tecnico di governo, funzione che si sa annichilire ogni spirito critico.
Questa evoluzione spiega quanto si potrebbe chiamare l’assenza, la scomparsa, la morte o, con un di più di ottimismo, l’eclissi degli intellettuali da ciò che resta del dibattito delle idee? Traverso tenta una spiegazione parlando del “loro annientamento da parte della potenza dei media” che hanno confiscato il dibattito intellettuale; come nel caso della recente polemica intorno a Freud lanciata da Michel Onfray e dalla sua casa editrice con una perfetta padronanza degli strumenti di comunicazione. Non proprio il suo genere, insomma. L’intellettuale sarebbe piuttosto un ricercatore specifico e critico. Questo soltanto? E dove colloca allora i Marcel Gauchet, Pierre Rosanvallon, Jean-Claude Milner, Alain Finkielkraut e altri? Nella sotto-categoria Varietà? Allora i nomi, i nomi! L’autore cita molti filosofi (Jacques Rancière, Alain Badiou, Giorgio Agamben, Nancy Fraser, Toni Negri, Slavoj Zizek), uno storico (Perry Anderson), un geografo (David Harvey), un sociologo (Philippe Corcuff), uno scrittore (Tariq Ali), dei teorici (Homi Bhabha, G.C. Spivak), di cui forse non si sa che sono tutti estranei all’universo spietato dei media, per la maggior parte relegati all’estrema sinistra (davvero, guardando bene, non dei ricercatori specifici e critici?), pur riconoscendo: “la rottura tra intellettuali critici e movimenti sociali resta considerevole”. C’è anche l’eufemismo del dire quanto il fossato che li separa sembri, in molti campi, insormontabile. Sta prima di tutto alla generazione che viene di inventare o, almeno, proporre delle nuove utopie; eppure essa sembra paralizzata, e ciò si traduce in una strana debolezza della protesta che le sregolatezze dell’epoca dovrebbero, al contrario, stimolare.
“Essa (la paralisi) tende a unire la disfatta storica delle rivoluzioni del ventesimo secolo e l’avvento di una crisi tutta storica del capitalismo, che priva una generazione di avvenire. I più sensibili alle ingiustizie della società sono i giovani precari che sono passati attraverso l’università e hanno un accesso alla cultura. Le condizioni di una esplosione sociale sono soddisfatte tutte, ma non c’è stoppino per mettere fuoco alle polveri”.
Capite che non c’è più un orizzonte d’attesa per ciò che dovrebbe essere una preoccupazione di tutti e non solo di alcuni.