La piramide di fango

L’ormai 64enne Salvo Montalbano non è più quello di una volta. I colpi cominciano a mancare e – diciamo pure – si sta rimbambendo alquanto. D’altra parte, è dal 1994 che riempie romanzi e racconti e che affianca la letteratura storica e politica di Camilleri. E poi, riconosciamolo, quando il commissario si trova ad affrontare casi di mafia, lo scrittore siciliano si rivela sempre un po’ uguale a se stesso.

Ma non si fatica a perdonarlo: con una produzione media di tre romanzi all’anno, la letteratura vigatese offre una qualità talmente elevata da avere ben pochi competitor nell’orizzonte italiano.

Tutto comincia nel fango. No, non si tratta del primo uomo. E nemmeno dell’ultimo, purtroppo, immischiato in problemi del genere. Una consueta vicenda d’intrecci tra amministrazione politica e mafia arriva sulla scrivania di Montalbano quando, dopo settimane e settimane di piogge incessanti, un cadavere viene scoperto in mezzo a un cantiere fermo nella campagna brulla e grigia di terra bagnata. Sembra scorrere persino nelle vene, tutto quel fangue; come lo chiama Catarella nella sua ormai nota devianza fonetica che, in questo caso, stabilisce un inquietante e rivelatorio malapropismo. Allo stesso modo che in una «pillicula espressionista tidisca, con il forti contrasto tra luci e scuro e con le ùmmire diformate e giganti», il paesaggio è la proiezione, in primisi, dello stato d’animo di Montalbano il quale, pur di vedere Livia uscire dalla depressione in cui si trova, è pronto a immolare la sua stessa serenità mentale. La fidanzata del commissario, infatti, sta ancora scontando le conseguenze di quanto accaduto nel romanzo precedente, Una lama di luce: la morte di François, il bambino che Livia avrebbe voluto adottare assieme a Salvo, nonché il protagonista de Il ladro di merendine.

Il caso di Giugiù Nicotra, trovato ammazzato e mezzo nudo affacciabocconi in una enorme galleria-tubo del cantiere, non riesce a pigliarlo più di tanto, a Montalbano. Porta avanti le indagini con lo stesso entusiasmo con il quale firma la montagna di carte che giornalmente si ritrova sulla scrivania. Questo paese sembra per sempre destinato alla corruzione, al malaffare, all’immobilità più straziante.

«Non si vidiva un filo d’erba, il virdi era stato cummigliato da ’na coperta semiliquita grigio scura ’n tutto eguali a ’na cloaca a celo aperto che aviva assufficato a ogni essiri viventi, dalle formicole alle lucertoli».

Il paesaggio è dunque, in secundisi, la proiezione visibile di uno stato di degrado costante e inarrestabile che circonda l’universo intero. Ci vuole poco perché gli indizi, i personaggi, le situazioni conducano al mondo dei cantieri e degli appalti pubblici. Perché, insomma, si riveli l’ennesima storia d’intrallazzi tra mafia e politica.

Fin da subito, appena cominciano le indagini, si aggira la moglie della vittima: un fantasma di cui si parla sempre, di cui è data per certa la morte ma della quale, fino alla fine, non si vedrà mai il cadavere, né si saprà dove si trova e come c’è finita. E poi un ospite fisso in casa Nicotra (il vero centro della vicenda) di cui si conosce l’esistenza ma la cui identità, nazionalità e funzione resterà un mistero fino quasi alla fine. A poco a poco – dopo vari tentativi di deviare le indagini verso il delitto passionale – ogni pezzo, ogni tassello, ogni indizio va a ricomporre un puzzle che altro non è se non un’enorme piramide di fango nella quale si muovono costruttori, amministratori pubblici, ditte, giornalisti, avvocati. Un’opira di pupi durante la quale tra i pupari succede qualcosa che fa saltare lo spettacolo.

È un Camilleri particolarmente cupo quello di questo romanzo. A rivelarlo è già lo stile, oltre che la vicenda. Se il pastiche linguistico a cui l’autore ci ha abituati è stato sempre in continua evoluzione fino a, negli ultimi anni, standardizzarsi su un registro riconoscibile, questa volta si nota uno scarto non indifferente. Innanzitutto, l’utilizzo degli aggettivi e delle descrizioni – di solito piuttosto parco a tutto vantaggio della teatralità e dell’azione – s’infittisce e va a creare la coreografia espressionistica della vicenda. Al dominare delle tonalità grigie e cineree di gran parte del testo, si contrappongono quelle luminose dell’ultima parte, quando Livia esce dalla depressione e la vicenda si avvia a una risoluzione. La sintassi, inoltre, è più pacata e lontana dagli scoppiettanti artifici che, solitamente, il romanziere associa alla sua spiccata sapienza narrativa. È come se, questa volta, l’urgenza di dire qualcosa abbia avuto la meglio sulle ragioni drammaturgiche. Oppure come se la cosa più importante fosse stata esprimere un enorme sentimento di disgusto. Perciò l’insistenza sul dato espressionistico e coreografico, piuttosto che sull’azione e sulla scena.

La lettura di questo romanzo, insomma, ci rivela un Camilleri un po’ insolito; forse più giù di tono. Anche i riferimenti costanti all’attualità italiana più stringente e le tradizionali considerazioni sui mali atavici di questa nazione tradiscono una scrittura fatta quasi di pancia, per assecondare un sentimento di sfiducia che, comunque, non rinuncia mai alla speranza e alla via d’uscita.

Una versione ridotta di questa recensione è uscita su CultWeek.

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